Ribellione e autenticità

Leggevo con curiosità un articolo nel quale veniva descritta un'anziana signora fiera di aver vissuto la propria vita in maniera ribelle.
E allora ripenso alla mia adolescenza costellata di piccole fughe da casa, alla prima sigaretta, ai "no" detti ai miei genitori e ad alcune scelte che, a volte, mi hanno persino penalizzato. Penso ai miei studenti, ai loro piercing, i tatuaggi, gli abiti in "controtendenza", il rifiuto di alcuni di loro di salutare e sedersi quando entro in classe.

Sapersi ribellare ai vincoli degli stereotipi e delle repressioni culturali è una bella cosa, ma la ribellione di per se nasconde anche un tranello insidioso.
La ribellione è un atto oppositivo, dove il proprio agire dipende dall'agire di qualcun altro. E' quindi un agire di conseguenza, un re-agire, il cui significato etimologico è "agire contro".
Messa in questi termini si capisce come la ribellione non sia necessariamente un atto creativo, nè un frutto che matura nella propria interiorità.
"Agire" significa anche "condurre" e "spingere", ovvero essere noi stessi il fulcro del nostro movimento e, a volte, persino del movimento degli altri.

Per cui, per assurdo, alle volte si è più autentici facendo quello che fanno tutti gli altri, con la consapevolezza delle ragioni del proprio agire, piuttosto che "distinguersi" ad ogni costo senza aver indagato a fondo i nostri desideri più autentici.
Per assurdo, la ribellione a volte assomiglia più ad una "schiavitù del contrario" per realizzare la quale si rinuncia a se stessi.

D'altra parte come diceva qualcuno con una battuta: "Si diventa adulti quando si fa ciò che è giusto nonostante ce lo abbiano consigliato i nostri genitori".